mercoledì 10 giugno 2009

IO RIPARTO DA QUI......

IL LODO ALFANO E LO SFILAMENTO DI PAPINO.....


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CRITICA SOCIALE
UN'EUROPA SENZA SINISTRA


Le ragioni del declino in un saggio di Ernst Hillebrand, studioso della “Ebert Stitfung” (SPD) , pubblicato dalla rivista inglese Prospect


Ernst Hillebrand, Prospect, marzo 2008,

I Partiti di centro-sinistra dell’Europa occidentale sono in rotta. Negli ultimi anni hanno perso il potere in diversi Paesi, anche in quelli dove avevano governato relativamente bene. Il centro-sinistra rischia seriamente di perdere in Italia (come poi è effettivamente successo, ndt) ed è in netta difficoltà in Gran Bretagna. Quattro delle cinque nazioni nordiche, le patrie della socialdemocrazia per eccellenza, hanno ora governi conservatori. La tedesca Spd è al governo come junior partner della coalizione di Angela Merkel, ma è insidiata alla propria sinistra da una nuova formazione; in Francia, i socialisti sono in crisi. Siamo di fronte ad una normale oscillazione del pendolo dell’alternanza o a qualcosa di più profondo, e grave, per il centro-sinistra europeo?

E’ azzardato trarre conclusioni generalizzate dall’esperienza di ogni singolo Paese. Tuttavia, un punto sembra chiaro. Gli sviluppi in corso segnalano la fine di un ciclo politico-ideologico: il progetto centrista, conosciuto in Gran Bretagna come Third Way ed in Germania come Neue Mitte, è giunto alla sua conclusione. Esso è stato dettagliato particolarmente in Gran Bretagna, prendendolo a prestito dalle concezioni clintoniane, ma ha avuto una certa influenza in tutta Europa.
Un progetto che ha permesso al centro-sinistra di accreditarsi come forza politica egemonica in Europa nella seconda metà degli anni novanta. Le aspettative degli elettori e le condizioni politico-economiche globali erano decisamente cambiate a partire dalla metà degli anni ottanta e le forze di centro-sinistra si sono dimostrate abili nell’intercettare i nuovi umori. Le varie declinazioni del progetto avevano in comune alcuni punti centrali: una combinazione di politiche economiche e fiscali neo-liberiste, con la ribadita centralità del ruolo dello Stato, esemplificata in particolar modo nei sistemi di welfare e nell’insistenza su una concezione culturale liberal-progressista che testimoniasse il persistere di una visione di fondo orientata al “progresso”. Le riforme del mercato del lavoro e la riorganizzazione del welfare si accompagnavano all’accettazione delle regole imposte dall’Unione Europea in tema di deregulation e di concorrenza (in alcuni Paesi gli anni novanta sono stati un periodo di privatizzazioni). Le forze di centro-sinistra si presentavano alla classe media come competenti managers del nuovo capitalismo. Contestualmente, veniva assegnato un grosso peso all’istruzione, nuovo strumento di riforma sociale in luogo delle politiche fiscali redistributive. L’idea di fondo era che investendo nell’educazione sarebbe stato possibile, nel tempo, dare una risposta efficace alle questioni della giustizia sociale, della disoccupazione e della competitività.

Dalla metà degli anni novanta in poi, questa strategia ha permesso al centro-sinistra di vincere in Europa e di governare, più o meno efficacemente. Oggi, tuttavia, l’appeal progressista sta scemando, poiché molte problematiche hanno assunto un grado di complessità troppo elevato per essere risolte secondo le ricette tecnocratiche. Prendiamo soltanto alcuni esempi:
la globalizzazione e l’europeizzazione hanno intaccato la situazione economica relativa dei lavoratori europei. I governi della Terza Via hanno fatto ben poco per mutare questo stato di cose. La quota proporzionale di salari e stipendi rispetto alla ricchezza complessivamente prodotta da un Paese è calata nell’Ue negli ultimi venticinque anni, essendo passata dal 72.1% del totale al 68.4. Parallelamente, la quota di quanti lavorano è cresciuta dal 61.2% della metà degli anni novanta al 64.5 di oggi. Ciò significa che un numero più elevato di lavoratori devono dividersi una porzione relativamente meno cospicua di ricchezza. Il valore dell’indice di Gini, che segnala le disuguaglianza di reddito, è cresciuto nella gran parte dell’Europa occidentale a partire dagli anni ottanta. Di conseguenza, la promessa dei riformatori tecnocratici, che si proponevano di tutelare le posizioni del “cittadino comune” meglio di qualsiasi altro Partito, ha perso di credibilità.
Allo stesso tempo, i principali Partiti di centro-sinistra dell’Europa continentale non hanno mantenuto la promessa di creare un più integrato spazio economico e sociale nel cuore del Vecchio Continente. Uno spazio del quale avrebbero dovuto beneficiare appunto i cittadini. Il risultato è che oggi si stanno ingrossando le file degli euro-scettici, e non solo nei Paesi Bassi od in Francia, dove i referendum hanno bocciato la prima bozza di Trattato costituzionale Ue. Non siamo di fronte ad una risposta irrazionale: se l’Unione Europea ha creato una vasta area di pace e stabilità politica, ha invece fallito nel promuovere la crescita economica e non ha evitato l’aumento della disoccupazione.

La promessa “rivoluzione educativa” non può considerarsi certamente soddisfacente. La disoccupazione giovanile in Europa si attesta al 18.7%. Non ci sono stati progressi per quanto riguarda la mobilità sociale ed il tasso di scolarizzazione, riferito alla scuola superiore, non ha registrato significativi passi avanti nell’ultimo ventennio. Nel frattempo, l’inadeguato finanziamento degli alti gradi dell’istruzione ha inciso negativamente sulla qualità dei titoli di laurea conseguiti, riducendone la spendibilità nel mercato del lavoro. Contrariamente alla retorica tecnocratica relativa agli alti standard educativi ed all’acquisizione di competenze professionali, la gran parte dei nuovi posti di lavoro creati non riguarda certo i settori più qualificati dell’economia dei servizi. E non sembra che il trend possa cambiare a breve: il governo britannico valuta che l’ottanta per cento dei nuovi posti di lavoro, che verranno creati entro il 2010, non richiederanno il possesso di un titolo universitario.

Intanto sono emerse nuove sfide che hanno trovato impreparato il centro-sinistra. Innanzi tutto, l’immigrazione. Il multiculturalismo, la risposta data dai progressisti all’aumento del fenomeno migratorio in Europa, si è rivelato inadeguato. Esso ha condotto a società frammentate, punteggiate da ghetti abitati da minoranze marginalizzate, ed a un conseguente mix di frustrazione e risentimento reciproco tra popolazioni autoctone ed immigrati. Un’analisi che possiamo applicare principalmente alla popolazione di cultura musulmana, ed in particolare alla seconda ed alla terza generazione di immigrati, che avvertono spesso un sentimento di ostilità verso le società occidentali, stato d’animo sconosciuto invece ai loro genitori, zii e nonni. Per molto tempo la sinistra ha rifiutato una discussione sull’argomento. Ora, l’immigrazione è la tematica rispetto alla quale più si avverte la distanza tra i Partiti di centro-sinistra e le opinioni espresse dal loro tradizionale elettorato di riferimento.

La postura passiva assunta dalla sinistra con il suo progetto di riforma tecnocratica, una versione socialdemocratica del Tina (there is no alternative, non c’è alternativa alla globalizzazione, ndt) di Margaret Thatcher, non può soddisfare la maggioranza della popolazione, che si aspetta dallo Stato un ruolo più propositivo. Una richiesta che spiazza la nuova sinistra. In molti Paesi si sta affermando una nuova ondata nazionalistica, difficile da conciliare con la retorica europeista e filo-globalizzazione dell’establishment di centro-sinistra.
Vi sono evidenti segnali di uno strisciante cambiamento dei sistemi valoriali delle società europee, che i progressisti semplicemente non riescono a cogliere. In alcuni Paesi lo zeitgeist, lo spirito dei tempi, sembra permeato, ancora una volta, di conservatorismo: i sondaggi indicano uno slittamento delle opinioni pubbliche verso i valori tradizionali. Il liberalismo socio-culturale ed il relativismo valoriale che hanno caratterizzato le “edonistiche” società occidentali nelle ultime decadi (e che i governi di centro-sinistra hanno esibito orgogliosamente come marchi della loro azione riformatrice) vengono ormai considerati inefficaci e disfunzionali. L’umore generale è stato invece colto dalla destra: Nicolas Sarkozy ha speso parte della sua vittoriosa campagna presidenziale a fare i conti con l’eredità del sessantotto; negli Stati Uniti, i Repubblicani hanno costruito le loro affermazioni nelle elezioni del 2000 e del 2004 sul recupero dei “valori.”

Il risultato di queste problematiche e contraddizioni è stato che quasi ovunque i Partiti di centro-sinistra si sono alienati il consenso di una quota significativa della loro base elettorale, poiché hanno smesso di parlare un linguaggio da essa comprensibile e non ha più condiviso le sue preoccupazioni. Le forze di centro-sinistra sono organizzativamente assenti dalle aree più problematiche delle città europee. Questo spazio lasciato vuoto è stato occupato con successo dai movimenti populistici della nuova destra e, in alcuni casi (come la Germania), dalle forze della nuova sinistra. Partiti che dimostrano di occuparsi dei problemi quotidiani della gente, cosa che le formazioni maggiori, soprattutto quelle di sinistra, sembrano essersi scordate di fare. I movimenti populisti di destra ottengono così risultati lusinghieri in Francia, Italia, Svizzera, Austria, Belgio e Paesi Bassi. E’ vero, le loro fortune si rivelano spesso alterne: il Front National non è ad esempio riuscito a bissare lo scorso anno il successo delle presidenziali francesi 2002. Ma il consenso dell’estrema destra rimane nel complesso più diffuso oggi rispetto agli anni sessanta e settanta.
Il centro-sinistra appare spaesato di fronte al declino della propria progettualità tecnocratica. Durante uno studio condotto dalla Fondazione Jean Jaures, un residente nelle bainleus francesi ha affermato: “Non siamo noi gli apolitici, piuttosto sono i politici che stanno diventando sempre più apatici.”

Il centro-sinistra ha bisogno di un rinnovato progetto politico-ideologico che gli permetta di tornare a vincere. Per usare un linguaggio antico, deve riuscire a spostarsi “più a sinistra” sulle questioni della giustizia sociale (senza peraltro ricadere nel vetero-statalismo degli anni settanta) e più “a destra” sulle tematiche relative alla cultura ed all’identità. Ciò che serve non è un discorso che si limiti ad andare incontro alle ambizioni della gente, uno dei punti di forza della Terza Via, ma che tenga anche conto delle sue paure e delle sue incertezze. Un discorso politico che ponga fine all’implicita stigmatizzazione di determinati gruppi, “i perdenti della globalizzazione”, “i difensori degli interessi costituiti”, e che riconosca che il declino del lavoro manuale e della classe operaia ha consegnato alla marginalità una significativa minoranza della popolazione.
Se il centro-sinistra vuole vincere ancora deve riavvicinarsi alla vita reale delle persone. Deve avere il pragmatismo di trascendere i suoi valori post moderni e post nazionali e di dare invece la precedenza agli interessi dei cittadini in carne ed ossa che vivono il presente (con la loro estrazione culturale e le loro convinzioni). Nel corso degli ultimi cent’anni lo Stato nazionale ha rappresentato il principale strumento attraverso il quale la sinistra ha perseguito i propri obbiettivi politico-sociali, uno strumento che non ha ancora trovato sostituti. Molte persone si augurano che lo Stato nazionale si comporti come protettore dalla, e non agente della, globalizzazione.

Il centro-sinistra deve mostrare la volontà di agire ancora negli interessi dei suoi elettori. Negli ultimi anni, i progressisti si sono limitati ad interessarsi agli aspetti “soft” della politica, in nome di un’interpretazione liberale dei diritti individuali e delle rivendicazioni dei vari gruppi sociali, ed hanno trascurato la “hard politics”, come se le questioni economiche e fiscali fuoriuscissero dal perimetro degli interessi della sinistra. In società caratterizzate dalla crescente disuguaglianza e dalla ridotta mobilità sociale, soprattutto per le classi medie e medio-basse, dipendenti dai sistemi di welfare, l’attuale fase di stallo non può continuare. (A tal proposito, è significativo che Roger Liddle, alleato di uno dei fondatori stessi del New Labour, Peter Mandelson, si sia recentemente espresso contro l’ineguaglianza. Mandelson, a metà degli anni novanta aveva auspicato che il New Labour smettesse di guardare con sospetto a coloro che si fossero arricchiti. Liddle, in un suo recente paper per il think tank Policy Network, ha proposto di istituire una commissione per monitorare i redditi più elevati ed una riforma della tassazione sulle eredità e sulle rendite finanziarie.)

Nello stesso tempo, è necessario rispolverare una seria discussione riferita alla qualità della vita sul lungo periodo, che non riguardi soltanto la sostenibilità ambientale. La rapidità dei cambiamenti sociali ed economici, fotografati da Zygmunt Bauman con il concetto di modernità liquida, ha indotto sentimenti ansiogeni d’incertezza anche all’interno del tradizionale ceto medio. E’ ugualmente evidente che per una porzione sostanziale delle popolazioni dell’Europa occidentale la questione economica può essere considerata, per ora almeno, risolta. Così, un’eccessiva enfasi sulla crescita economica, non accompagnata da un’adeguata attenzione alla qualità degli stili di vita ed al valore del rapporto lavoro/tempo libero, rischia di esercitare scarsa attrazione su i gruppi summenzionati. Ciò significa che, nella sua ricerca di una nuova narrativa, la sinistra dovrebbe evitare di sviluppare un’analisi troppo negativa dei cambiamenti avvenuti negli ultimi anni e delle loro conseguenze per la società e per le vite delle persone; dopo tutto, la nuova sinistra cerca interlocutori sia tra i vincitori che tra gli sconfitti della globalizzazione.

Come se i dilemmi non fossero abbastanza, la sinistra si trova a fronteggiare un’altra sfida: anche la destra si sta modernizzando. Essa ha negli ultimi tempi detto addio, almeno a livello retorico, all’ortodossia neoliberista, per tentare di riconquistare il centro dello spazio politico. Questo riposizionamento appare come un implicito riconoscimento del successo del centro-sinistra nell’impiantare alcuni elementi del proprio progetto politico nelle società occidentali. Il “neo-centrismo” delle forze di destra è ravvisabile, in forme diverse, in varie realtà: negli Stati Uniti, la corsa al centro caratterizza, almeno nelle questioni di politica interna, la campagna presidenziale del candidato Repubblicano John McCain. I conservatori svedesi di Fredrik Reinfeldt sono riusciti a sconfiggere nel 2006 la competente ed esperta elite Socialdemocratica anche grazie alla promessa di mantenere i benefici del welfare state scandinavo. La Cdu tedesca ha mitigato alcune delle riforme del mercato del lavoro promosse dalla precedente maggioranza, guidata dall’Spd. In Gran Bretagna, il Partito Conservatore, sotto la guida di David Cameron, ha compiuto una decisa virata verso il centro. Cameron ha dichiarato la sua approvazione per gli investimenti nei servizi pubblici decisi dal governo laburista ed ha condiviso l’obbiettivo di ridurre la povertà infantile. Inoltre, ha corretto l’immagine “cattiva” dei Tories, assumendo una posizione favorevole rispetto alla causa ambientalista, al matrimonio tra omosessuali e in ordine ad altre questioni. In Francia, Nicolas Sarkozy ha condotto una campagna presidenziale attenta alla dignità del lavoro ed alla laicità della Repubblica, senza dimenticarsi di omaggiare alcune figure sacre della sinistra francese come Jean Jaures e Victor Hugo. La strategia adottata da questo conservatorismo morbido non consiste nel contestare le finalità che la sinistra propone (un certo livello di welfare e di solidarietà sociale, il diritto all’istruzione ed il rispetto delle minoranze) quanto piuttosto i mezzi proposti per realizzarle.

Lo Stato, si sostiene, non è lo strumento idoneo per raggiungere quegli obbiettivi: è troppo costoso ed ingombrante. Meglio ricorrere al mercato, all’iniziativa dei privati, all’impegno volontario. Sembra la versione conservatrice dello slogan con cui l’Spd sfidò Helmut Kohl nel 1998: “Non intendiamo cambiare ogni cosa, vogliamo solo migliorare molto di quello che è stato fatto.” Un simile approccio strategico si rivela fruttuoso per il conservatorismo soft, in particolar modo in un Paese come la Gran Bretagna, dove esiste una notevole convergenza valoriale tra gli elettori dei diversi orientamenti politici, almeno per quanto riguarda l’economia e le questioni sociali. Gli autori della ricerca, 2007-08 British Social Attitudes, rilevano come negli anni ottanta esistesse una netta contrapposizione fra l’elettorato Tory e quello del Labour. Contrapposizione che si è oggi ridotta sensibilmente.

La controffensiva del centro-sinistra dovrà obbligatoriamente incentrarsi su diversi fronti, ma il ruolo dello Stato rappresenta una tematica ineludibile. Se esiste una differenza fra nuova sinistra e nuova destra, essa riguarda la visione sul ruolo che lo Stato avrà in futuro nell’erogazione di servizi sociali, nella fornitura di beni pubblici e nella creazione di opportunità individuali e collettive in società ineguali. In un periodo di incertezza, l’idea di uno Stato forte ed efficace dovrebbe teoricamente apparire più affascinante di un sistema in cui i la fornitura di beni pubblici venisse delegata alla beneficenza o al settore commerciale. Ma stiamo parlando di uno Stato che si dimostri ricettivo davanti alle richieste dei cittadini e che non sia refrattario all’innovazione nell’erogazione dei servizi; il vecchio, burocratico, inerte apparato pubblico non permetterà certo alla sinistra di recuperare consensi.

Al termine dell’Era Mitterand, Lionel Jospin abbozzò un inventario di quanto realizzato dalla sinistra francese. E’ urgente che la sinistra europea si dedichi ad un’operazione del genere in relazione alle riforme elaborate nelle ultime decadi in applicazione del suo progetto tecnocratico. Bisogna stabilire che cosa conservare e che cosa scartare perché inefficace e vetusto. E’ il tempo, di nuovo, di un serio esercizio di revisionismo.


(traduzione a cura di Fabio Lucchini)

Ernst Hillebrand è uno studioso di Scienza Politica. E’ direttore dell’ufficio di Parigi della Friedrich Ebert Stiftung, la più grande ed antica fondazione partitica tedesca che intrattiene stretti legami con il Partito Socialdemocratico (Spd)



Data: 2009-06-08

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Caduto in battaglia di Luigi Pintor

Provo moltissima difficoltà a scrivere di Enrico Berlinguer.
Non è solo per tristezza.
Sento quello che è successo come una tragedia politica.
È come se quest’uomo integro, verso il quale ho sempre provato una istintiva amicizia che in qualche modo sentivo ricambiata, fosse caduto vittima di uno sforzo troppo grande.
Caduto in battaglia è una brutta espressione retorica, eppure è così. Come segretario del Partito comunista, ma io credo anche come persona, come coscienza politica e morale, Berlinguer aveva avvertito che la democrazia italiana sta correndo grandi rischi, che molti valori essenziali che abbiamo cercato di affermare nella società nazionale in questi decenni sono stati minacciati.
E ha trovato, negli ultimi tempi, lui per sua natura così prudente, accenti estremi per esprimere questo convincimento, e suscitare energie capaci di rovesciare l’andamento delle cose.
È tragico, e sembra quasi un ammonimento per noi, che si sia spezzato sotto questa tensione.
Egli appartiene a una generazione che, incontrandosi con il movimento operaio negli anni della seconda guerra mondiale, fece molto di più di una scelta politica come può essere intesa oggi, si identificò con una causa ideale e ne fece un modo di essere.
Se non è stato facile per nessuno, in questi decenni, reggere alle tempeste che si sono abbattute sull’universo comunista senza smarrirsi e confondersi, quanto deve essere costato di intelligenza e sensibilità a uno che è diventato un capo senza pretenderlo?
Schivo e fragile, sono due definizioni di Berlinguer che si leggono oggi sui giornali e facilmente si associano alla sua immagine: eppure ha aiutato milioni di uomini a orientarsi in un combattimento divenuto sempre più difficile.
Tratto da l’Unità del 13 giugno 1984


10 giugno 2009
Giovanni Di Fronzo alle 12.42 del 12 giugno
La storia di berlinguer ..è fatta di alti e bassi.
Tuttavia si tratta comunque di uno dei migliori uomini politici della storia e della Repubblica.
Specialmente nell' ultima parte della sua vita egli diede il meglio di sè e tracciò una via che non fu più seguita: fu allora infatti, che dopo i dissapori degli anni Settanta, egli entrò in connessione maggiore con i movimenti e diede un volto conflittuale al partito nel sociale (si ricordino i suoi picchetti a mirafiori).
E' esattamente da lì, e non dal governismo, che deve ripartire ora l' opera della sinistra radicale: conflitto sociale!
Negli stessi anni, egli ebbe la lungimiranza d' intravedere l' agonia della democrazioa e di fare della questione morale una questione politica.
Tutto è così tremendamente vero oggi!
Morì sul più bello, con tremendi effetti per la sinistra e la democrazia italiana, effetti che proprio oggi si stanno dispiegando.