Le esperienze politiche e istituzionali italiane da tempo tricottano a maglia larga. Il Paese è politicamente sdillabrato: in pista, si crea un effetto simile al calzino copripattino che ha lo scopo di mascherare gli strumenti che muovono sotto i lembi delle istituzioni. Le cure che i promotori del referendum propongono puntano a cambiare - per quanto è possibile al di fuori da interventi più organici che attendono da un decennio - la legge elettorale. Dopo le europee e le amministrative, il 6 e il 7 giugno, il 21 sarà messa alla prova la consultazione democratica per eccellenza. Gli italiani dovranno dimostrare di credere in se stessi, e non disertare le urne come accade dal 1997. Chiunque si dichiari insoddisfatto politicamente dovrà rispolverare il suo credo democratico, superare tutti gli ostacoli frapposti per il raggiungimento del quorum (osteggiato in particolare dalla Lega, che preferiva il rinvio al 2010) e votare: “sì” o “no”. La vera posta in gioco è dimostrare di tenere a questo strumento. Anche solo per fare sapere che le urne contano ancora qualcosa. Si vada a votare. O sarà complicato dimostrare che un ruolo attivo vi sia ancora tra noi italiani moderni. Sveglia che c’è una libertà politica che và interpretata, và partecipata prima che si venga destituiti dalla legittimità a reclamare.
I quesiti saranno tre e fanno sperare una buona partenza. Il primo riguarda la Camera e chiede se il premio di maggioranza vogliamo che sia dato direttamente al partito più votato o, come avviene dal 2005, all’intera coalizione che lo ripartisce tra le varie forze politiche (anche quelle che hanno ricevuto meno voti e che possono usare il loro peso per fare traballare gli equilibri all’interno della stessa coalizione). Il quesito deve essere necessariamente valutato alla luce del travagliato cammino che ha portato i due raggruppamenti elettorali di centro-destra e di centro-sinistra a fondare un’identità unitaria. Il PD e il PDL nascono nella prospettiva precisa di evolvere in un sistema all’inglese (fondato sul principio che c’è chi governa e chi controlla chi governa), data l’esigenza espressa dagli italiani di abbandonare la strada tutta italica dei protagonismi e delle commistioni di partito. Magari nei piccoli partiti - seguendo la ratio referendaria - si annidano tante idee, ma poiché in Italia le cosiddette diversità hanno determinato soprattutto tanti modi per trovare “accordi gelatina”, che hanno finito per rendere le parti molle, si vuole dire stop.
Il secondo quesito, anch’esso degno di essere considerato criticamente, riguarda invece il Senato e chiede che il partito che avrà più voti possa conquistare il 55 per cento dei seggi lasciando che le altre forze politiche si dividano il rimanente 45 per cento. Lega, Italia dei Valori e Udc sono preoccupati perché se non superano il 4 per cento alla Camera e dell’8 per cento al Senato rischiano di essere costretti ad entrare in tempo, se vogliono, dalla porta delle formazioni politiche più grandi. Il terzo quesito infine, mira a togliere il manico del coltello dalle mani del candidato big, che si presenta nelle circoscrizioni decise dal partito e che solo a giochi conclusi decide per sé, determinando anche per gli altri candidati votati dai cittadini ma che attendono l’esito delle opzioni per capire se poter entrare in Parlamento.
I tre quesiti sono importanti. Ma il quorum è il quid essenziale. Consapevoli che votare “sì” determinerà un cambiamento dell’attuale sistema politico ed elettorale, ma che sarà necessario un passo ulteriore e pretendere che in parlamento si lavori seriamente su un intervento organico. Il referendum, infatti, poiché è abrogativo rispetto a norme esistenti è anche obbligato all’autosufficienza, nel senso che deve riuscire a mantenere percorribile il sistema così come esce dal referendum. Di una possibilità è privato, di quella che avrebbe certo portato tutti gli italiani al voto: ripristinare il voto di preferenza.
Dal referendum potrà sortire un sistema elettorale più corretto, ma perché sia democratico è necessario eliminare l’autoritarismo elettivo introdotto dal “porcellum” (con la spinta di tutti i partitini sugli schieramenti). Non si capisce, altrimenti, a cosa sia utile andare alle urne senza poter esprimere un voto di merito su “chi” e “come” ci rappresenta e mandarlo a casa se opera male. Alla volontà popolare manca lo strumento principe. Dal 2005 la libertà politica è limitata, precisamente allo scopo di far emergere chi viene scelto dai ‘gerarchi’ di partito perché ritenuto il più adatto a rappresentare una parvenza di popolarità. E’ forse per questo che i partiti ricorrono alle letterine o agli attori: per dare una parvenza. Per nascondere meglio, proprio come un calzino copripattino, che gli interessi di parte stanno eclissando silenziosamente le ragioni della democrazia. In pista ruotano tutti, senza che nessuno sappia quali siano gli strumenti che rendono possibile il movimento: una banalità, la banalità che fa male alla tenuta democratica delle nostre istituzioni. TERESA BENINCASA.
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