La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita.»
Enrico Berlinguer
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Giovanni Giolitti
Figlio di Giovenale, un cancelliere di Tribunale, e di Enrichetta Plochiù, appartenente ad una famiglia benestante di origine francese, il piccolo "Gioanin", come veniva chiamato in famiglia, dopo la morte del padre, quando ancora aveva un anno, si trasferisce da Mondovì a Torino dove risiedevano quattro fratelli della madre nella casa di Via Angennes (ora Via Principe Amedeo). Qui Giolitti cresce gracile e di salute malferma tanto che la madre, su consiglio dello zio medico lo porta per alcuni anni in montagna, nella Val Maira, nella casa del nonno materno.
Studia al ginnasio San Francesco da Paola di Torino (che avrebbe poi mutato il nome in liceo Gioberti). Frequenta la facoltà Giurisprudenza all'Università di Torino e si laurea a soli 19 anni.
Politico privo di un passato impegnato nel risorgimento, portatore di idee liberali moderate, entra nel governo già nel 1882 come collaboratore del Ministero di Grazia e Giustizia; dopo essere passato, con la Destra storica di Quintino Sella, al Ministero del Tesoro (dove, fra l'altro, contribuì a quell'opera tributaria volta tutta al pareggio del bilancio), diventa Ministro del Tesoro del governo di Francesco Crispi e, quindi, Ministro dell'Interno nel governo di Zanardelli, prima di giungere alla nomina di Primo ministro nel 1892.
L'ideologia politica
Come neo-presidente del Consiglio si trovò a dover affrontare, prima di tutto, l'ondata di diffuso malcontento che la politica crispina aveva provocato con l'aumento dei prezzi.
Ed è questo primo confronto con le parti sociali che evidenzia la ventata di novità che Giolitti porta nel panorama politico dei cosiddetti "anni roventi": non più repressione autoritaria, bensì accettazione delle proteste e, quindi, degli scioperi purché non violenti né politici (possibilità, fra l'altro, secondo lui ancora piuttosto remota in quanto le agitazioni nascevano tutte da disagi di tipo economico). Come da lui stesso sottolineato in un discorso in Parlamento in merito allo scioglimento, in seguito ad uno sciopero, della Camera del lavoro di Genova, sono da temere massimamente le proteste violente e disorganiche, effetto di naturale degenerazione di pacifiche manifestazioni represse con la forza:
«Io poi non temo mai le forze organizzate, temo assai più le forze disorganiche perché se su di quelle l'azione del governo si può esercitare legittimamente e utilmente, contro i moti inorganici non vi può essere che l'uso della forza».
Contro questa sua apparente coerenza si scagliarono critici come Gaetano Salvemini che sottolinearono come invece nel Mezzogiorno d'Italia gli scioperi venissero sistematicamente repressi.
L'intellettuale meridionale definì Giolitti un "ministro della malavita" proprio per questa sua disattenzione riguardo ai problemi sociali del Sud,[2] che avrebbe provocato un'estensione del fenomeno del clientelismo di tipo mafioso e camorristico.
Giolitti si può definire un liberale progressista o un conservatore illuminato, sapeva adattarsi, cercando di padroneggiarla, alla variegata realtà politica italiana.
Egli disse che il suo era come il mestiere di un sarto che dovendo confezionare un vestito per un gobbo deve fare la gobba anche al vestito.
Egli dunque era convinto di dover governare un paese "gobbo" che non aveva intenzione di "raddrizzare" ma realisticamente governare per quello che era.
La sua attenzione si rivolse al partito socialista, per trasformarlo da avversario a sostegno delle istituzioni ed allargare nello stesso tempo le basi dello stato, e ai cattolici, che volle fare rientrare nel sistema politico.
Dopo i disgraziati avvenimenti che avevano caratterizzato l'ultimo governo Crispi e quello di Pelloux, Giolitti era convinto che, se lo stato liberale avesse voluto sopravvivere, doveva tener conto delle nuove classi emergenti.
Nelle "Memorie della mia vita" egli si pone sulla stessa via del suo grande predecessore Cavour e quasi ne ripete le espressioni.
Come Cavour sosteneva, seguendo il modello liberale inglese, che bisognasse realizzare tempestive riforme per prevenire le agitazioni socialiste («L'umanità è diretta verso due scopi, l'uno politico, l'altro economico.
Nell'ordine politico essa tende a modificare le proprie istituzioni in modo da chiamare un sempre maggior numero di cittadini alla partecipazione al potere politico.
Nell'ordine economico essa mira evidentemente al miglioramento delle classi inferiori, ed a un miglior riparto dei prodotti della terra e dei capitali») allo stesso modo sembrava dire Giolitti:
«Io consideravo che, dopo il fallimento della politica reazionaria, noi ci trovavamo all'inizio di un nuovo periodo storico...
Il moto ascendente delle classi operaie si accelerava sempre più ed era moto invincibile perché comune a tutti i paesi civili e perché poggiava sui principi dell'eguaglianza tra gli uomini.
Solo con una [diversa] condotta da parte dei partiti costituzionali verso le classi popolari si sarebbe ottenuto che l'avvento di queste classi, invece di essere come un turbine distruttore, riuscisse ad introdurre nelle istituzioni una nuova forza conservatrice e ad aumentare grandezza e prosperità alla nazione.» (dalle Memorie della mia vita di G. Giolitti).
È innegabile la tendenza, sfondo di tutta la sua attività politica, di spingere il parlamento ad occuparsi dei conflitti sociali al fine di comporli tramite opportune leggi.
Per Giolitti, infatti, le classi lavoratrici non vanno considerate alla stregua di una pura opposizione allo Stato - come fino ad allora era avvenuto - ma occorre riconoscere loro la legittimazione giuridica ed economica.
Compito dello stato quindi è quello di porsi come mediatore neutrale tra le parti, poiché esso rappresenta le minoranze ma soprattutto la moltitudine di quei lavoratori vessati fino alla miseria dalla legislazione fiscale e dello strapotere degli imprenditori nell'industria.
Un aspetto della sua attenzione alle classi popolari può essere considerata anche la innovazione della corresponsione di una indennità ai parlamentari che sino ad allora avevano svolto la loro funzione a titolo gratuito.
Questo avrebbe consentito, almeno in linea teorica, una maggiore partecipazione dei meno abbienti alla carica di rappresentante del popolo.
Età giolittiana.
L'inizio dell'avventura giolittiana come primo ministro coincise sostanzialmente con la prima vera disfatta del governo di Crispi, messo in minoranza nel febbraio del 1891 su una proposta di legge di inasprimento fiscale.
Dopo Crispi, e dopo una breve parentesi (6 febbraio 1891 - 15 maggio 1892) durante la quale il paese fu affidato al governo liberal-conservatore del marchese Di Rudinì, il 15 maggio 1892 fu nominato Primo Ministro Giovanni Giolitti, allora ancora facente parte del gruppo crispino.
Fu costretto alle dimissioni dopo poco più di un anno, il 15 dicembre 1893, messo in difficoltà dallo scandalo della Banca Romana e inviso ai grandi industriali e proprietari terrieri per il suo rifiuto di reprimere con la forza le proteste che attraversavano estesamente il paese e per voci su una possibile introduzione di una tassa progressiva sul reddito.
Dopo lo scandalo bancario
Giolitti non ebbe incarichi di governo per i successivi sette anni, durante i quali la figura principale della politica italiana continuò ad essere Francesco Crispi, che condusse una politica estera aggressiva e colonialista. A Crispi succedettero alcuni governi caratterizzati da una notevole rudezza nel reprimere le proteste popolari e gli scioperi; Giolitti divenne sempre più l'incarnazione di una politica opposta e il 4 febbraio 1901 un suo discorso alla Camera contribuì alla caduta del governo allora in carica, il Governo Saracco, responsabile di aver ordinato lo scioglimento della Camera del Lavoro di Genova.
Già a partire dal governo Zanardelli (15 febbraio 1901 - 3 novembre 1903), Giolitti ebbe una notevole influenza che andava oltre quella propria della sua carica di Ministro degli Interni, anche a causa dell'avanzata età del presidente del consiglio.
II governo Giolitti
Il 3 novembre 1903 Giolitti ritornò al governo, ma questa volta si risolse per una svolta radicale: si oppose, come prima, alla ventata reazionaria di fine secolo, ma lo fece dalle file della Sinistra e non più del gruppo crispino come fino ad allora aveva fatto; intraprese un'azione di convincimento nei confronti del Partito Socialista per coinvolgerlo nel governo, rivolgendosi direttamente ad un "consigliere" socialista, Filippo Turati, che avrebbe voluto persino come suo ministro (Turati però rifiutò anche in seguito alle pressioni della corrente massimalista del PSI).
In questo contesto furono varate norme a tutela del lavoro (in particolare infantile e femminile), sulla vecchiaia, sull'invalidità e sugli infortuni; i prefetti furono invitati ad usare maggiore tolleranza nei confronti degli scioperi apolitici; nelle gare d'appalto furono ammesse le cooperative cattoliche e socialiste. Fu inoltre varata la nazionalizzazione delle ferrovie; si promosse lo sviluppo economico attraverso la stabilità monetaria ed i lavori pubblici (ad esempio il traforo del Sempione).
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BENEDETTO CROCE.
Nacque a Pescasseroli, in Abruzzo, da un'agiata famiglia abruzzese trapiantatasi a Napoli e crebbe in un ambiente profondamente cattolico. Ancora adolescente, però, si distaccò dal cattolicesimo e per tutta la vita non si riaccostò più alla religiosità tradizionale. Perse i genitori, Pasquale e Luisa Sipari, e la sorella Maria durante il terremoto di Casamicciola del 28 luglio 1883 mentre vi si trovava in vacanza con la famiglia, nell'isola di Ischia. In seguito a questo episodio fu affidato alla tutela dello zio Silvio Spaventa, fratello del filosofo Bertrando Spaventa, nella cui casa romana visse fino alla maggiore età.
Croce ebbe contatti con gli esponenti della Nuova Italia, tra cui Labriola che lo inizierà al marxismo e alla filosofia idealistica classica tedesca. Nel gennaio del 1903 esce il primo numero della sua rivista La critica, stampata a sue spese fino al 1906, allorché subentra l'editore Laterza.
Viene nominato senatore nel 1910 e dal 1920 al 1921 è ministro della Pubblica Istruzione nel 5° e ultimo governo Giolitti. Rompe definitivamente col fascismo, dopo il delitto Matteotti.
Nello stesso anno rompe anche con Giovanni Gentile, il quale già dal 1903 collaborava con la sua rivista "La critica", per discrepanze filosofiche e politiche.
Gentile, con la pubblicazione del Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925, si schiera definitivamente dalla parte del fascismo e Croce risponde, pubblicando a sua volta su Il Mondo, il Manifesto degli intellettuali antifascisti nel quale viene denunciata la violenza e la soppressione della libertà di stampa da parte del regime.Dopo un breve appoggio al movimento antifascista Alleanza Nazionale (1930), si allontana quindi dalla vita politica[1], continuando peraltro ad esprimere liberamente le sue idee politiche, senza che il regime fascista lo censurasse.
In effetti il fascismo riteneva Croce un avversario poco temibile, sostenitore com'era di un fascismo inteso come "malattia morale" inevitabilmente superata dal progresso della storia. Inoltre la fama di Croce presso l'opinione pubblica europea lo proteggeva da interventi oppressivi da parte del regime.
Nel 1938 il regime vara la legislazione antisemita.
Il governo invia a tutti i professori universitari un questionario da compilare ai fini della classificazione "razziale".
Tutti gli interpellati rispondono. L'unico intellettuale non ebreo che rifiuta di compilare il questionario fu Croce.
Il filosofo, invece di restituire compilata la scheda, inviò una lettera al presidente dell'Istituto Veneto di Scienze, in cui scrive sarcasticamente:
« Gentilissimo collega, ricevo oggi qui il questionario che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l'avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. Ha senso domandare a un uomo che ha circa sessant'anni di attività letteraria e ha partecipato alla vita politica del suo paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose? »
Dopo la caduta del regime Croce rientra in politica, accettando la nomina a presidente del Partito Liberale. Durante la Resistenza cerca di mediare tra i vari partiti antifascisti. Nel 1944 è Ministro senza portafoglio nel secondo governo Badoglio. Subito dopo la liberazione di Roma (giugno 1944) entra a far parte del secondo governo Bonomi, sempre come ministro senza portafoglio, ma dà le dimissioni qualche mese dopo, il 27 luglio. Al referendum sulla forma dello Stato (2 giugno 1946) vota per la Repubblica e abbandona il Partito Liberale, che invece è a favore della monarchia. Viene eletto all'Assemblea Costituente.
Sempre nel 1946 fonda a Napoli l'Istituto Italiano per gli Studi Storici destinando per la sede un appartamento di sua proprietà, accanto alla propria abitazione e biblioteca, nel Palazzo Filomarino.
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CARLO ROSSELLI
IL LIBERALISMO SOCIALISTA E IL PENSIERO ECONOMICO
Il liberalismo socialista
Quale fosse, d'altronde, l’idea centrale di Rosselli nel ‘23 e nel ‘24 è ampiamente testimoniato dai suoi scritti sul “Liberalismo socialista” e dall’analisi sul movimento operaio inglese.
Carlo Rosselli, su suggerimento di Alessandro Levi, inviò un articolo a “Critica Sociale”, pubblicato nel numero 1– 15 luglio 1923 con il titolo “Liberalismo socialista”. Il suo punto di partenza era molto chiaro: Per molti sa ormai di vecchio l’affermazione essere il socialismo il logico sviluppo del liberalismo, i socialisti gli eredi legittimi e necessari di quella funzione liberale che spettò nel secolo passato ai patrioti del Risorgimento.A proposito di “Liberalismo socialista”, Rosselli sosteneva: Almeno sino allo scorso ottobre (data di nascita del Partito Unitario) in Italia non è mai esistito, dal 1900 in poi un partito socialista, che potesse dirsi veramente liberale e democratico; essendo i membri della direzione abbarbicati alla lettera del marxismo, non è stata possibile l’esistenza di un partito e di una pratica socialista con metodo liberale.
In questo articolo Rosselli si rifaceva allo scritto di Alessandro Levi, “Liberalismo come stato d’animo”, il quale aveva distinto tra liberalismo come sistema, legato ad una specifica situazione economico – sociale, e liberalismo come metodo di pensiero e di azione, quale stato d’animo. Per Rosselli il liberalismo come metodo non può essere monopolio di questo o di quel gruppo, perché sta a significare il rispetto per alcune fondamentali regole di gioco, che stanno alla base della civiltà moderna e che si riassumono nel sistema rappresentativo, nel riconoscimento di un diritto di opposizione e nella ripulsa dei mezzi violenti di opposizione.
Nel suo breve articolo Rosselli additava l’esempio del partito laburista: Esiste in un paese del globo (Inghilterra) un partito socialista laburista che sì appresta a conquistare il potere con metodo ed animo liberale, disposto sin d’ora a riconoscere nel giorno non lontano del suo trionfo, il diritto all’esistenza legale di una o più opposizioni.
E concludeva: Tutte le fortune del movimento proletario e tutte le sue possibili miserie gravitano attorno ad un punto centrale: la lotta per la libertà, di fronte alla quale ogni altra questione, appare ben misera cosa.
La fiducia di Carlo Rosselli nel laburismo inglese era condivisa da altri giovani come Nino Levi, Alessandro Schiavi, Enrico Sereni, e Piero Sraffa, quasi tutti fabiani. Si spiega perché la direzione del Partito Socialista Unificato decise di dare spazio ai propositi liberali dei giovani che guardavano al “Labour Party”, fondando il nuovo giornale giovanile “Libertà”, al quale fu invitato a collaborare Carlo Rosselli.
Il primo gennaio 1924 uscì il primo numero di “Libertà”, quindicinale della gioventù socialista, che aveva come sottotitolo la frase di Marx ed Engels: Alla società borghese, con le sue classi e con i suoi antagonismi di classe, subentrerà un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti.
Molto probabilmente furono proprio Treves, Mondolfo e Levi a chiedere a Carlo Rosselli di scrivere per il nuovo giornale l’articolo su “Il partito del lavoro in Inghilterra”, che uscì nel numero tre del 1 febbraio 1924. Rosselli ribadiva: Il Labour Party, in base agli elementi che lo compongono può definirsi come una federazione di gruppi economici e di gruppi politici. In realtà è federativa ed associativa l’organizzazione politica del movimento operaio più vecchio e potente del mondo.
In questo lungo articolo Rosselli traccia una sintetica storia del movimento operaio inglese dal 1825, ma la sua attenzione è rivolta al “Labour Party”: La verità è che i laburisti hanno lasciato in seno all’organizzazione un così largo spirito liberale, una così ampia autonomia, una così larga libertà di critica. A ciò ha contribuito notevolmente la tendenza tutta inglese a vedere solo problemi concreti e ben definiti. In Inghilterra il marxismo, al pari d’ogni altra ideologia aprioristica, non ha mai attecchito.
Il materialismo storico, inteso come volgare determinismo economico, è nettamente respinto. La lotta di classe è senza dubbio praticata attivamente dalle organizzazioni inglesi; ma essa viene respinta generalmente in sede teorica, e politica dalle società socialiste.
Perciò hanno sempre rivendicato nell’alone del proletariato organizzato tutto il mondo del lavoro, perciò hanno sempre dichiarato di voler governare in nome e nell’interesse di tutto il paese con il metodo democratico – liberale. In tal modo si sono conquistati larghe simpatie nei ceti borghesi.
Per la prima volta nella storia d’Europa, assistiamo alla grandiosa e pacifica ascensione al potere della classe operaia. Esempio e monito ad un tempo per i partiti socialisti continentali, che dimostra la possibilità date certe condizioni d’educazione e di ambiente, di un movimento socialista che giunga al potere attraverso il metodo liberale – democratico.
Quest’articolo conferma che il modello politico inglese all’inizio del 1924 è ben chiaro nella mente del giovane Rosselli, il quale continua a sperare che questo modello possa essere adattabile all’Italia.
Rosselli, in un altro articolo su “Critica Sociale” del 15 – 31 maggio 1924, “Luigi Einaudi ed il movimento operaio”, scrive una recensione su Einaudi perché in lui Carlo vede nobilmente incarnata la tragedia del liberalismo italiano che un tempo sapeva comporre la premessa della scuola classica d’economia col risveglio delle classi proletarie, e che oggi nutre grande scetticismo nelle virtù costruttive del mondo operaio, in quanto tende appunto a modificare e rovesciare le basi economiche e morali della società attuale .
Einaudi sostiene che bisogna distinguere il moto operaio dal socialismo, invece nella realtà vi è una precisa correlazione tra il fatto politico e il fatto sindacale; nella realtà ogni sano movimento operaio si accompagna ad un movimento politico socialista.
Questo brano conferma che anche in campo economico - sindacale Rosselli cercava il riscontro nell’Inghilterra, quale modello di società civile.
Rosselli utilizza la dicotomia sistema e metodo, proposta da Alessandro Levi, per distinguere tra liberalismo come sistema e liberalismo come metodo, e per applicare questa distinzione all’Italia; i liberali italiani intendono il liberalismo come sistema che sì riassume nella formula: sistema capitalistico e borghese. Bisogna invece puntare sul metodo liberale, avente come premessa fondamentale che la libera persuasione del maggior numero è il miglior mezzo per raggiungere al verità.
Il metodo viene inteso come un complesso di norme che stanno a base della vita dei popoli a civiltà europea e che tutte le parti in lotta s’impegnano di rispettare in quanto servono ad assicurare la pacifica convivenza dei cittadini e delle classi.
Poiché l’interesse economico di un paese non può prescindere da un’intesa tra imprenditori e lavoratori, l’associazione dei primi dovrebbe portare all’unificazione sindacale dei lavoratori; la conseguenza sarebbe la formazione di un partito del lavoro, che agisca con metodo liberale nell’ambito di un ordinamento rappresentativo di tipo bipolare con maggioranza al governo e minoranza all’opposizione. In quest’ipotesi, lo sguardo è sempre rivolto all’Inghilterra.
Il 25 marzo 1924 era uscito sul giornale “Libertà” un articolo di Rosselli intitolato “Il movimento operaio”. Rosselli riconosce che il movimento operaio più vecchio e potente del mondo sta attraversando una crisi, ma questa per lui è una crisi dovuta a fattori transeunti, laddove la più intima crisi che rode il colosso sindacale britannico è l’incapacità di innestarsi sul terreno economico.
Di gran lunga il più originale fra i teorici del gildismo è G.D.H. Cole, per il quale il problema operaio è problema di coscienza, di dignità, di libertà, infatti, gli operai non si accontentano più del semplice miglioramento economico; il fine che intendono raggiungere con la Trade Union non si allarga, si sposta; vogliono divenire attivi compartecipi della vita dell’azienda.
Per Rosselli le gilde, unità economiche elementari, stanno profondamente permeando il mondo unionistico britannico, per cui prevede una lenta trasformazione dello Stato, compiuta dal sindacalismo delle Trade Unions, in modo da realizzare l’emancipazione della classe operaia e porre fine al comitato d’affari della classe dominante.
Il problema operaio resta un problema politico nel senso che il movimento sindacale può sfociare verso lidi vasti, se si allea coi partiti o crea esso stesso il suo organo politico.
Nel numero 10 di “Libertà” del 15 maggio 1924, c’è l’articolo “Inchiesta sui giovani (guerra e fascismo)”, firmato Carlo Rosselli, nel quale l’intellettuale antifascista si sforza di capire l’atteggiamento dei giovani aderenti al fascismo.
E’ un articolo di una triste pensosità, ma di una forte coscienza morale:Quando li vediamo passare nelle dimostrazioni tumultuose o negli ordinati militareschi cortei, - afferma Rosselli – quando c’è dato di parlare con essi, sentiamo che ci differenziamo in qualche elemento fondamentale. E ci pare di essere quasi un po’ stranieri in questa terra, quasi facenti parte di una civiltà diversa.
La nostra visione della vita è radicalmente differente.
I nostri ideali di bontà, di fratellanza, di giustizia, provocano in essi il riso, lo scherno. Perché tutto questo?
Rosselli precisa che in quest’inchiesta non vuole accennare che ad un solo fattore, la guerra, per spiegare l’adesione dei giovani al fascismo:La più gran parte di quei giovani, che oggi costituisce la linfa certo più vitale del fascismo, non vide gli orrori della guerra.
L’articolo finisce con un atto di speranza in nome della propria fede politica, perché il socialismo è immanente, nelle cose, nel cuore dell’uomo.
E’ da affermare che nel numero di “La giustizia”, quotidiano del Partito Socialista Unitario, del 21 maggio 1924, fu inserita una recensione di Carlo Rosselli, dal titolo “Revisione marxista”, al volume di Antonio Graziadei “Prezzo e sovrapprezzo nell’economia capitalista”.
Recensione piuttosto polemica che iniziava così:Un movimento politico nel quale i giovani accettino dogmaticamente la posizione intellettuale dei loro maggiori: un movimento politico nel quale i giovani non sentono prepotente il bisogno di vagliare e di elaborare personalmente, è un movimento che si avvia alla decadenza.
Il promesso articolo a Piero Gobetti compare nel luglio 1924 sulla rivista torinese, intitolato “Liberalismo socialista”.
Prendendo lo spunto da alcuni articoli di Novello Papafava e da un dibattito su “Il liberalismo delle masse”, Rosselli sostiene che quando si discute di liberalismo occorre distinguere tra il sistema (che difende la proprietà privata, il liberismo) ed il metodo che oggi si concreta nel principio della sovranità popolare, nel sistema rappresentativo, nell’affermarsi di taluni diritti fondamentali acquisiti inalienabilmente alla coscienza moderna.
Attualmente, afferma Rosselli, i liberali italiani mostrano di non comprendere più lo spirito autentico del liberalismo che è nel metodo; il panorama del liberalismo italiano non dà speranze.
Ha ragione dunque Missiroli quando afferma che nella storia esercitano una funzione liberale ,i partiti estremi, quelli che in quanto estremi, negano in tutto o in parte l’assetto sociale attuale.: In realtà, col negare ogni rapporto tra liberalismo e le masse rivendicando il primo come patrimonio d’elitès, si dichiara il fallimento dell’ideologia liberale: chi più della minoranza - intendo parlare della minoranza storica come il proletariato rispetto alla borghesia - si propone di affermare nella vita sociale nuove forze per l’innanzi calpestate ed ignorate?
Quale più grande funzione liberale, liberatrice, di quella che si concreta nel movimento di sindacati, cooperative, partiti che sinteticamente chiamiamo socialista? Sono dunque le minoranze, i gruppi ancor deboli, bisognosi per ragioni fisiologiche di un’atmosfera di libertà e d’autonomia che assicuri loro la possibilità di sviluppo, le vere forze liberali. La storia è per questa tesi.
D’altra parte, secondo Rosselli, anche il socialismo è un ideale che continuamente si rinnova a contatto con la realtà: l’esperienza storica ha condannato senza speranza i primitivi programmi socialisti: il collettivismo, il socialismo accentratore di stato.
Tutti – sottolinea Rosselli – vedono i pericoli enormi della burocrazia, dell’invadenza statale, dello schiacciamento della libertà individuale. Solo per grandi linee si può delineare la meta, anzi una meta, una tappa. Occorre adattarsi alle circostanze e soprattutto ad un mondo che è in continua vertiginosa trasformazione.
Si può sottolineare com’esigenza pregiudiziale la conquista di una relativa autonomia economica e subito dopo la conquista dei beni morali, dell’autonomia spirituale.
In generale dovrebbe e potrebbe esser guida ai socialisti un ideale d’autonomia e di libertà. Si deve procedere dal basso verso l’alto. Il socialismo in tutti i suoi aspetti ha da essere frutto di conquista, anzi d’autoconquista; deve essere una creazione autonoma delle classi operaie.
Proprio sulla base di simili presupposti, Rosselli sente di potersi definire un socialista liberale e conclude quello che è una sorta di manifesto programmatico con un’appassionata dichiarazione di fede antidogmatica: Io non credo alla dimostrazione scientifica del socialismo; non credo di possedere la verità assoluta; non mi illudo di avere in tasca la chiave dell’avvenire. Sono socialista per un insieme di principi, d’esperienze, per la convinzione tratta dallo studio dell’evoluzione dell’ambiente in cui vivo; sono socialista per cultura, per reazione, ma anche per fede e per sentimento. Non credo che il socialismo sarà e che la classe lavoratrice si affermerà nella storia per la fatale evoluzione delle cose, volontà umana a parte. A chi mi parla codesto linguaggio replico con Sorel; e qui sta tutto il mio volontarismo: “Il socialismo sarà ma potrebbe anche non essere”.
Il denso saggio segna una tappa molto importante nell’evoluzione del pensiero politico rosselliano.
A questo punto c’è tuttavia da chiedersi che significato abbia in quel momento storico il liberalismo socialista di Rosselli e soprattutto a quale tradizione si possa far risalire. I riferimenti più immediati sono “Liberalismo come stato d’animo” di Alessandro Levi ed una serie di articoli di Novello Papafava apparsi dal maggio all’agosto 1923 su “La Rivoluzione liberale”.
Al di là delle suggestioni più vicine, le origini del credo rosselliano devono farsi risalire da una parte a “l’Unità” salveminiana, dall’altra agli scritti di Piero Gobetti e di Guido De Ruggiero e alla tradizione millsiana del socialismo britannico, dei Fabiani e dei gildisti.
Si tratta di influenze eterogenee che il giovane assimila nella misura in cui corrispondono alle sue aspirazioni di un socialismo etico e volontaristico. Negli articoli e nei libri di quegli autori, Carlo cercava una sintesi ideale tra i suoi principi liberali ed il movimento operaio e socialista, una formula nuova che sostituisse non solo l’interpretazione positivista del marxismo fatta propria da Turati e da Treves ma anche le revisioni idealistiche di Marx.
Ora c’è da chiedersi fino a che punto, ed in quale misura, quella posizione fosse calata nella realtà politica, riflettesse esigenze capaci di influire sulla situazione.
Secondo Nicola Tranfaglia, l’analisi rosselliana sul liberalismo socialista non era frutto soltanto di una combinazione intellettualistica, ma rispondeva ad un’esigenza autentica di quel momento: che era quella di porre ai socialisti italiani il problema storico della democrazia. Ma la debolezza dell’elaborazione di Rosselli stava nella sua convinzione che quel problema potesse essere risolto facendo ricorso al pensiero neo liberale dei Missiroli o dei De Ruggiero oppure all’apporto, del tutto estraneo alle necessità storiche dell’Italia, del socialismo etico britannico. Partito insomma dalla premessa corretta di porre al centro della sua analisi il metodo liberale, Rosselli non riuscì a fare di quell’elemento la base per un discorso che andasse oltre il liberalismo etico e ponesse i presupposti di una democrazia socialista di tipo nuovo.